Ciao Malandrino!
Il professore-filosofo, Luigi Cataldi Madonna, che ha acceso una luce sull’Abruzzo e sul Pecorino: un ricordo personale, una famiglia, due bottiglie (Giulia e Supergiulia) che oggi continuano a parlare la sua voce.

Ci sono persone che non fanno rumore. Ti guardano, ti valutano in un attimo, ti concedono cinque minuti e poi, come per miracolo, restano tutta la giornata con te. Luigi Cataldi Madonna di rumore ne sapeva fare tanto, ma era anche così. Una mano che ti presentava il territorio e l’altra che ti spostava, con garbo, dentro una grassa risata. Un vignaiolo con le rughe giuste e un professore di filosofia con il dono raro della concretezza: le domande sulla vita fatte tra una sigaretta rollata al volo e una bottiglia stappata senza cerimonie.
La sua storia comincia ben prima di lui. Nel 1920, suo nonno (il Barone Luigi Cataldi Madonna) apre l’azienda in provincia de L’Aquila, a Ofena: vigne, lavoro, misura. Nessuna retorica. Luigi cresce dentro questa geografia asciutta e testarda, e poi la attraversa in diagonale: lo studio, l’università, la cattedra di filosofia e allo stesso tempo la vigna che chiama, chiama sempre. Quando in Italia si comincia a parlare seriamente di identità e di territori, lui c’è. Non si mette in posa: agisce. Sceglie il Pecorino, uva nervosa e dritta, e la mette al centro di una visione che oggi ci sembra ovvia e allora fu controcorrente. Su quell’Altipiano di Ofena, dove la definizione di “clima continentale” ne rispecchia ogni singola descrizione.

Il mio core memory con Luigi è nel giugno del 2021. Avevo organizzato un piccolo gruppo di amici abruzzesi/romani/lucani per scoprire l’Abruzzo durante i mitici Europei. Non tutti addentro al vino, ma tutti curiosi. La prima tappa è stata il Tirino in canoa, dai nostri amici de Il Bosso, dove trovi l’acqua limpida che ti toglie dalla testa il superfluo, la seconda da Giulia e Luigi. Ci avevano detto: “Passate. Luigi forse sarà via… forse vi saluta. Passate”. Sorriso. È rimasto ore. Ad un certo punto mi ha fissata, con quella luce ironica che riconosco nei miei conterranei, e mi ha chiesto la cosa più abruzzese del mondo: «A chi so’ figli questi qua?». E poi: «Ma questi me la sanno girare ‘na sigaretta, se glie lo dico?». Certo che sì, Luigi.

Erano i suoi “cinque minuti”. Sono diventati un pomeriggio intero: vecchie annate tirate giù senza tremore, racconti, battute secche come il vento d’inverno su quelle alture, in mezzo a pallotte cac’ e ova e trattati di filosofia. La sua voce arrivava così: subito concreta e paesana, come amiamo noi abruzzesi, e poi solida, colta, lucidissima. Non teorizzava: ti trasportava. Non sermoni: conversazioni.
Non era la prima volta che mi capitava. Ho un ricordo che mi tiene per mano: io, vent’anni, chiusa in camera ad ascoltare musica, quell’età in cui ti sembra che tutto altrove sia più interessante. Mio padre apre la porta, dice “lista en 5 minutos y nos vamos” e partiamo. Un’ora di strada. Arriviamo da Cataldi Madonna e c’è Luigi, burbero solo di facciata, come siamo noi di montagna. “A te che ti devo dare?”, chiede a mio padre, che non lo conosceva di persona ma conosceva i suoi vini. Si guardano, si annusano, si raccontano vite lontane: il Venezuela di mio padre, la durezza gentile di queste colline. E io lì, stupita e rapita insieme, con la sensazione che stesse succedendo qualcosa di necessario. Anche allora, cinque minuti diventarono ore.

Di Luigi mi restano soprattutto i pieni, non i vuoti.
La sua passione ostinata, la capacità di restare attaccato alla terra senza chiudere gli occhi sul mondo.
La sua volontà non edulcorata, non gridata, ma con alzata di voce se necessario.
Resistente. Ha scelto di fare qualità quando in Abruzzo serviva un supplemento di coraggio. C’erano altri esempi come Valentini, Pepe, Masciarelli, ma serviva nuova luce. Luigi accese la sua con il Pecorino difendendola controvento, quando tanti preferivano la comodità del già noto.
A chi gli chiedeva “perché?”, rispondeva con i calici. A chi gli chiedeva “come?”, rispondeva con il lavoro.
La cosa più bella è che il suo pensiero si è trasformato in bottiglie che oggi hanno il nome di una persona: Giulia, sua figlia. Giulia e Supergiulia sono due etichette che hanno una spina dorsale e un sorriso. Non fanno i fuochi d’artificio: dicono la verità. Il Pecorino, qui, non è una maschera: è materia viva, spinta acida che ti tiene dritto, sapidità che viene dal terreno, freschezza che non si esaurisce al primo sorso. Sono vini di compagnia e di pensiero: stanno bene in tavola e non hanno paura del silenzio dopo un brindisi.
Giulia è la figlia. Dal 2019 porta avanti l’azienda. E se a Napoli direbbero che ha cazzimma, in Abruzzo diciamo che ha schiena. Una forza lucida, colorata e unica capace di spostare le cose. Quando la guardi lavorare, riconosci lui: la linea netta, il gusto di tenere una rotta anche quando è più faticoso. Ogni tanto la sento e mi viene da scherzare: tu non stai “mantenendo”, stai “rilanciando”. Eppure la cosa più bella è che lei così esplosiva, riesce a mettere sempre al centro il vino. La famiglia. Il luogo. Lo senti nel bicchiere. Lo senti nel modo in cui ti accoglie.
L’Abruzzo che conosco e che amo, montano e marino, forte e gentile, ha bisogno di figure così. In questo teatro Luigi ha dato l’esempio. Non ha fatto “scuola”: ha fatto strada. E quando una strada è tracciata con questa chiarezza, la percorri anche senza guardare il navigatore.
Se mi chiedete chi era Luigi Cataldi Madonna, rispondo così: uno che ha tenuto insieme vino e vita. Che ha messo filosofia al servizio del quotidiano. Che ha capito, prima di tanti, che l’identità non è uno slogan ma un lavoro paziente: scegliere l’uva giusta, darle una dignità luminosa, non cedere quando sembra più facile allargare la mano. E se chiudo gli occhi, lo risento: “A chi so’ figli questi?”. Siamo figli tuoi Luigi, di questa terra e di questo modo di intendere il vino.








