Jumeirah Capri Palace
L’isola, il museo, la tavola. Un viaggio nell’arte e a L’Olivo
Tasted by Adua Villa

Tra mito e bellezza, Capri è un’isola che non ha mai smesso di raccontarsi. Le sirene di Ulisse, le ville di Tiberio, la luce che fa e disfa il profilo delle scogliere: tutta la retorica che pensi di conoscere si deposita appena attraversi Anacapri e imbocchi via Capodimonte. Poi entri al Jumeirah Capri Palace e capisci che qui il racconto cambia registro: non più cartolina, ma museo abitato, un percorso di opere contemporanee che si srotola tra esterni e interni, e che ti prende per mano fino alla sala da pranzo. È la prima volta che un albergo mi sembra una galleria che vive, senza l’ansia di dimostrarsi tale. Lo chiamano The White Museum: non un’esposizione, ma un’idea di ospitalità in cui arte, design e cura del dettaglio fanno squadra e rimettono al centro la parola stupore.









La soglia è già dichiarazione: accanto alla reception ti guarda Ettore e Andromaca (1960) di Giorgio De Chirico; al bar, un quadro di Allen Jones lascia letteralmente uscire una figura femminile dalla tela; e poco più in là, Azzurra di Fabrizio Plessi — una tradizionale barca a due prue usata per la Grotta Azzurra, trasformata in installazione — rimette nel suo alveo originario la parola “Mediterraneo”. Intanto scorci di Warhol, Magritte, Miró, Kandinsky, Mondrian ricompaiono come citazioni nelle suite, mentre nell’atrio un elmo di Mimmo Paladino presidia il passaggio come un totem silenzioso. Ma il respiro si allarga davvero quando raggiungi la piscina: lungo 40 metri si stende Rive dei Mari di Arnaldo Pomodoro, una sorta di fondale marino in fibra che dialoga con il mosaico di Velasco Vitali sul fondo vasca. E capisci che qui l’arte non è arredo, è spazio: cambia la percezione del luogo, la postura del corpo, il passo.

Nel pomeriggio resto a camminare tra un’opera e l’altra. Non cerco di capire tutto, lascio che siano le superfici a parlare: la lama lucida di Pomodoro, l’ironia sospesa di Jones, l’archeologia reinventata di Paladino. A un certo punto mi sorprendo a sorridere: è raro che un hotel non veda l’arte come cornice; qui l’arte è un’altra forma di accoglienza. Non stupisce che la direzione, con me nella figura di un preparatissimo Massimo Cerrotta che mi ha accompagnata alla scoperta delle opere e istallazioni, racconti il White Museum come visione più che come collezione: un invito ad attraversare culture ed epoche con discrezione, senza rumore.




Poi arriva la sera, e il museo si fa tavola. L’Olivo è al piano nobile della casa, il ristorante due stelle Michelin che porta nel nome una promessa di sobrietà mediterranea. La Michelin lo giudica “cucina eccellente”: qui il lessico non è urlato, è cesellato — e questo oggi è un atto controcorrente.
In sala il ritmo ha la calma di chi conosce il vento dell’isola. Alla direzione della cucina c’è Andrea Migliaccio, campano, cresciuto tra Capri e Ischia, oggi Head Chef dell’Olivo e, più in generale, mente culinaria della proprietà caprese; un percorso che l’ha portato a firmare lo stile del Capri Palace ma anche a confrontarsi con orizzonti internazionali. In brigata con lui lavora un team di grande mestiere; il risultato è una cucina che rispetta la memoria e pratica l’invenzione con la naturalezza di chi ha interiorizzato il luogo.
Il Mediterraneo entra in forma di ingredienti — ortaggi, agrumi, pescato — e di linee: tagli puliti, acidità luminose, sapidità mai urlate, cotture millimetriche. È una cucina che non teme la parola “eleganza” e che si appoggia su equilibri più che su effetti. Vale per il mare come per la terra; vale per i piatti storici come per le stagioni che arrivano e cambiano il colore dell’olio. Il contesto dice il resto: L’Olivo è l’unico ristorante con due stelle Michelin sull’isola di Capri, e questo non si misura in inchini, ma in consistenza.









C’è una cosa che mi piace, qui: l’idea che lo spazio contribuisca al gusto. Le altezze misurate, il legno che scalda, il bianco che accoglie la sera; vedi il riflesso dell’arte persino nel modo in cui arriva il pane, nelle texture della porcellana, nel dialogo di luce tra tavolo e sala. È come se il White Museum avesse trovato a L’Olivo la sua continuazione commestibile: il gesto dell’artista che diventa gesto di cucina. E quando affiorano i rimandi — un’acidità che tesa come una linea di Pomodoro, un contrappunto aromatico che sembra un ciottolo lucido di Plessi — capisci che non stai facendo sovrainterpretazioni: stai ascoltando.






Se ti interessa la gerarchia delle cose, la Michelin è già lì a ricordartelo con il suo doppio sigillo. Se invece ti interessano le storie, il Jumeirah Capri Palace ne ha più di una: c’è Il Riccio “pieds dans l’eau”, laggiù verso la Grotta Azzurra, per il capitolo marino; c’è a-Ma-Re con la firma del maestro pizzaiolo Franco Pepe per il capitolo pop colto; c’è perfino la programmazione a quattro mani che di tanto in tanto porta in casa grandi chef ospiti. È un arcipelago gastronomico, e L’Olivo ne è la rotta maestra. E io ne sono stata spettatrice, nella spettacolare serata dal titolo: ritorno sull’Isola dove Davide Oldani del D’O insieme al trio di chef Andrea Migliaccio, Salvatore Elefante e Vincenzo Tedeschi hanno danno vita ad un menù unico dai rimandi mediterranei, tutto accompagnato da Dom Perignon Vintage 2015 Brut e Dom Perignon Rosè Vintage 2009 brut. Tutto sotto la regia del sommelier Riccardo Presezzi e il suo vice Vincenzo Riccio.




Ma torno all’arte, perché qui tutto parla con tutto. Mi siedo un momento vicino a Azzurra: la barca di Plessi è un promemoria gentile — il mare non è spettacolo, è strada. Allora ripenso alla definizione che avevo nel taschino fin dall’inizio: “hotel-museo”. Ma è riduttiva. Questo è un museo abitato, dove la misura del lusso coincide con la capacità di far dialogare: opere e persone, memoria e presente, cucina e paesaggio. Non sorprende che i materiali ufficiali raccontino il White Museum come un’idea curatoriale diffusa, capace di piegare la luce a racconto. È esattamente ciò che senti mentre attraversi i corridoi.
A cena la narrazione torna rotonda: Mediterraneo come lingua madre, Capri come accento, tecnica come sintassi. Non ti trovi davanti a una sfilata di effetti, ma a una sequenza a volume controllato in cui il gusto ha sempre l’ultima parola. Ha senso, qui, parlare di precisione emotiva. Non cerchi piatti “iconici” da Instagram; ti ritrovi a ricordare sapori: un fondo netto, un’erba che arriva un secondo dopo, un’amarezza tenuta in guinzaglio. E capisci perché il giudizio “eccellente” dei rossi della guida suona giusto: non c’è compiacimento, c’è tensione.

Uscendo dalla sala, passo di nuovo davanti al De Chirico. La sua metafisica, qui, sembra improvvisamente domestica — e questo per me è il complimento più alto: aver reso vivibile ciò che altrove teniamo a distanza. È questa la forza del Jumeirah Capri Palace: spostare l’asticella della parola “hotellerie” fino a includere arte e cucina nello stesso racconto, con la naturalezza di chi lo fa da sempre. Lo capisci anche scorrendo le pagine ufficiali: l’arte non è elemento accessorio, ma DNA dichiarato; L’Olivo non è “il ristorante dell’hotel”, è una destinazione sulla carta dell’isola.

E Capri? Sta intorno, respira. Il vento che sale verso il Solaro, il bianco che prende il sole, il blu che cambia ogni dieci minuti. Qui vivi il desiderio, molto contemporaneo, di un lusso culturale che non è ostentazione, bensì cura. The White Museum ha questa delicatezza; L’Olivo la traduce in piatti; e il Jumeirah Capri Palace la rende esperienza. È un triangolo che, se ami guardare e assaggiare, chiude alla perfezione.
Me ne vado tardi, come capita quando non vuoi perdere l’ultima sfumatura. Rientrando in camera ripasso mentalmente la serata: Pomodoro, Plessi, Paladino; la sala, la luce, i tempi perfetti; l’idea che il Mediterraneo, cucinato con intelligenza, sia un’arte maggiore. Poi, prima di dormire, mi arriva addosso la definizione che cercavo: qui al Jumeirah Capri Palace il gusto è un modo di vedere.

