Le scelte di Letrari

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Andare controcorrente è una vocazione di famiglia. A volte premature, folli: le scelte firmate Letrari sono sempre state tutto questo. Eppure, ogni volta, il tempo ha dato loro ragione.

Tasted by Adua Villa

C’è una linea sottile tra intuizione e ostinazione, tra visione e testardaggine. In Letrari quella linea non è mai stata un limite, ma piuttosto una traiettoria. La storia di questa cantina trentina, nel cuore della Vallagarina, è fatta di curve impreviste, di svolte non richieste, di idee che all’inizio sembravano fuori contesto. E che poi hanno definito lo stile di un’azienda.

Tutto comincia da un uomo, Leonello Letrari, classe 1931. Enologo prima che il termine fosse di moda, è lui a intuire per primo – nel panorama italiano – il potenziale delle cuvée bordolesi, e a crearne una, il Fojaneghe, quando tutti ancora parlavano solo di vini monovarietali. Poi parte per un viaggio in Francia, rientra e si porta dietro un’intuizione: se la Champagne può avere le sue bollicine, perché non il Trentino? Così, insieme a quattro amici visionari, dà vita a Equipe5, un progetto che – a metà degli anni ’70 – produce mezzo milione di bottiglie di spumante metodo classico. In un’epoca in cui nessuno, nemmeno a Trento, pensava che le bollicine potessero diventare la firma di un territorio. Eppure Leonello lo aveva capito prima di tutti.
Ma a un certo punto, come ogni visionario, decide di lasciare il grande per tornare al piccolo. E nel 1976 fonda la sua cantina: Letrari. Lo fa con Maria Vittoria, sua moglie. Lo fa a Nogaredo, con pochi ettari ma con idee ben chiare. Fare uno spumante di territorio, ma farlo a modo proprio.
Poi arriva Lucia. È il 1987 quando entra in azienda, appena diplomata all’Istituto Agrario di San Michele all’Adige. È giovane, è tecnica, ma soprattutto è figlia d’arte. E se è vero che il vino, come la musica, si tramanda anche per via genetica, nel suo caso il DNA è più che evidente.
Lucia non ci mette molto a mettersi in luce. I primi esperimenti sono con il Marzemino, un’uva che all’epoca veniva vista come rustica, troppo “popolare” per una produzione ambiziosa. Ma lei ci crede, la lavora con cura, la eleva. E poi arriva il Ballistarius, rosso che unisce vitigni internazionali e autoctoni in un blend che oggi sarebbe normale, ma che a fine anni Novanta suonava come una provocazione. Cabernet e Teroldego insieme? E perché no. Lucia sa che un vino deve raccontare un’intuizione, non un disciplinare.

Intorno agli anni 2000, Letrari cambia ancora pelle. Si trasferisce a Rovereto, in località Borgo Sacco. Non si tratta di un semplice cambio logistico, ma di una scelta di rottura. La nuova cantina è moderna, razionale, pensata per ridurre l’impatto ambientale e per aprirsi – in un futuro ancora lontano – all’accoglienza. È l’alba dell’enoturismo, ma nessuno lo sa ancora. Letrari sì.
E poi, come spesso accade in questa storia, arriva un altro momento chiave, nato da un dettaglio. Durante una degustazione tecnica interna, mentre si degorgiano nuove annate, Lucia si accorge che alcune bottiglie sono buone, anzi ottime, anche senza l’aggiunta della liqueur. Nasce così il Dosaggio Zero. Non uno, ma una linea completa. In un momento in cui il mercato chiede dolcezza, rotondità, immediatezza, lei propone una bollicina essenziale, strutturata, verticale. Inizialmente le critiche non mancano: “I pas dosé devono essere freschi, non corposi”. Ma come spesso accade in casa Letrari, è solo questione di tempo. Dopo anni di diffidenza, oggi un terzo della produzione aziendale è fatta di spumanti senza dosaggio, e la Riserva Zero è considerata una delle più interessanti del panorama Trentodoc.

È proprio sul Trentodoc che l’azienda ha costruito la sua identità contemporanea. Non inseguendo mode, ma mettendo a punto uno stile personale. Nessuna concessione alle semplificazioni: ogni cuvée ha una sua ragione d’essere. Il Quore Brut Riserva è uno Chardonnay in purezza che Lucia ama definire “un gesto d’affetto verso il nostro territorio”. Il Rosé +4, frutto dell’incontro tra Pinot Nero e un tocco di Chardonnay, è un omaggio alle donne dell’azienda. E poi c’è il 976, la Riserva del Fondatore, un monumento liquido dedicato a Leonello: 120 mesi sui lieviti, solo nelle migliori annate, e un profilo gustativo che coniuga complessità, eleganza e un’impressionante capacità di tenuta.
Ma se il Metodo Classico è la punta dell’iceberg, sotto la superficie c’è un lavoro in vigna che fa la differenza. Letrari non ama i proclami. Ufficialmente non è biologica, non è biodinamica. Ma la vigna è trattata come un giardino privato. Il sovescio è praticato regolarmente, non si fanno diserbi, i trattamenti sono ridotti al minimo. Come dice Lucia, “la chimica è come un farmaco: serve solo se davvero indispensabile”.

Oggi l’azienda conta circa 21 etichette, tra vini fermi e spumanti. Produce poco più di 130.000 bottiglie l’anno, di cui circa 100.000 dedicate al Trentodoc. L’export rappresenta circa il 7% delle vendite, con presenze in Svizzera, Germania, Danimarca e USA. Ma non è mai stata una realtà ossessionata dai numeri. L’obiettivo è la coerenza, non la crescita a tutti i costi. E in questo, Letrari è rimasta fedele a sé stessa.
Un altro aspetto che merita attenzione è l’ospitalità. Anche qui, l’approccio è personale. Niente fronzoli, niente salotti instagrammabili. Si degustano i vini in giardino, tra le viti. Si parla con Lucia, o con le persone che vivono l’azienda ogni giorno. Si entra nel ritmo di un luogo che non ha bisogno di effetti speciali per emozionare.
Negli ultimi due anni, Letrari ha investito molto anche nel futuro. Oltre 200.000 euro in ammodernamenti e nuovi impianti. L’obiettivo è duplice: migliorare la qualità e prepararsi a nuovi scenari climatici. La selezione clonale è attenta, le scelte agronomiche sono improntate alla sostenibilità. Perché chi è abituato a fare scelte fuori dal coro, sa che le rivoluzioni iniziano sempre dalla terra.
C’è anche un aspetto femminile fortissimo, che attraversa tutta la storia dell’azienda. Lucia guida l’impresa con determinazione e grazia, e ha costruito un team tutto al femminile che condivide visione e responsabilità. Non è un femminismo da slogan, ma una realtà concreta, quotidiana. E il vino, anche per questo, sembra avere una voce più nitida, una precisione più sottile.
Eppure, forse il tratto più distintivo di Letrari è proprio la capacità di restare fedele a se stessa. In un mondo che chiede conferme immediate, che rincorre le mode, che vuole numeri prima ancora di sapere cosa c’è in bottiglia, questa azienda continua a seguire una linea diversa. Quella del tempo lungo, delle decisioni meditate, delle scelte poco condivisibili sul momento ma sempre avanti sui tempi.

Fare Metodo Classico in Trentino quando ancora non esisteva nemmeno il nome. Produrre rossi bordolesi con uve trentine. Spostare una cantina per fare spazio a un’idea. Mettere in commercio uno spumante senza dosaggio quando nessuno lo voleva. Aprire le porte dell’azienda prima ancora che si parlasse di enoturismo. Puntare sulle donne, sulla vigna, sulla qualità, sempre e comunque.
Le scelte di Letrari non sono mai state scelte facili. Ma sono sempre state scelte necessarie… un po’ come dire: “se tutti fanno la stessa cosa, vuol dire che è il momento di fare qualcos’altro”.
E se oggi ci sono produttori che parlano di autenticità, di artigianalità, di terroir, di rispetto della natura, è anche perché qualcuno, anni fa, ha deciso di imboccare quella strada senza sapere dove portasse. Di credere in qualcosa che ancora non esisteva. Di mettere in bottiglia una visione.
E allora forse la vera definizione di “scelta” è proprio questa: non fare ciò che conviene, ma ciò che ha senso. Anche se non lo capisce nessuno. Almeno per ora.
Perché, alla fine, le scelte di Letrari sono state tutte così: un po’ folli, un po’ scomode, ma tremendamente giuste.

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