Festa a Vico: la festa della veracità (che sa di futuro)

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Tasted by Adua Villa

Ci sono eventi che sembrano usciti da una rivista patinata, gente stirata a vapore, flash ovunque, hashtag creati in laboratorio e storie Instagram che sembrano dire: “guarda quanto sono cool”.
E poi c’è Festa a Vico.
Che è tutta un’altra storia. Anzi, è una storia vera.

Ti trovi lì, a camminare per le strade di Vico Equense con un cuoppo in mano, tra uno chef stellato e una nonna che impasta, e pensi: “Ma perché fuori da qui sembra tutto così falso?”
Non parlo di finzione. Quella è legittima, a volte necessaria: il trucco teatrale, l’estetica, la messinscena. Parlo di qualcosa di più grave. Parlo del falso, quello che ormai ha contaminato anche la realtà. Che non si limita a mascherarla, ma la sostituisce, ridisegnando nuove regole – sociali, comunicative, perfino emotive.
Viviamo in un tempo in cui non basta più distinguere tra vero e falso, dobbiamo imparare a distinguere tra reale e artefatto, tra autenticità e costruzione algoritmica del consenso.
Ed è qui che Festa a Vico diventa una parabola contemporanea”. È sudore, sorrisi veri, tovaglie spaiate, pentole che bollono e chef che cucinano davvero. È il contrario del contenuto costruito. È una comunità che si mette a tavola e accoglie chiunque voglia condividere, senza bisogno di badge.

A Vico Equense, per qualche giorno a inizio giugno, il cuore batte più forte. Sarà il mare, sarà il profumo di ragù nell’aria o quella capacità tutta campana di accogliere senza sovrastrutture, ma qui succede qualcosa di raro: l’alta cucina scende in strada. Letteralmente.
Non c’è trucco, non c’è inganno – c’è gente. Gente che cucina, che mangia, che ride, che si abbraccia. Gente che, come il padrone di casa Gennaro Esposito, non si mette sul piedistallo. Anzi, si sporca il grembiule e gira per le vie di Vico salutando tutti. Con gli chef stellati, con la Caritas, con i ragazzi delle scuole alberghiere, con chiunque abbia voglia di cucinare o solo di esserci.
A Festa a Vico, le stelle – quelle Michelin – non servono a creare distanza, ma a fare luce su una comunità intera. Quella che Gennaro porta avanti con naturalezza, fianco a fianco con chi cucina per tutti. Un giorno lo vedi con Massimo Bottura, il giorno dopo a distribuire pasti con la Caritas, e il giorno dopo ancora lo trovi in una piazza a fare foto con le signore del paese.
C’è una parola che mi piace usare per questa festa: verace.
Verace come la mozzarella appena tagliata, come un “uè” gridato da un balcone, come un piatto di genovese fatto con amore.
Verace come i campani, che ti guardano negli occhi e ti chiedono: “Ma tu hai mangiato?” E non è una domanda, è un gesto d’amore.

Io vivo a Milano da otto anni. Milano è il regno del “bello a tutti i costi”, del format, del branding ovunque – anche nel caffè. Ma qualcosa, anche lì, sta cambiando.
Sarà che siamo tutti un po’ stanchi di eventi troppo lucidi, di sorrisi finti e storytelling a tutti i costi. La gente vuole tornare a mangiare con le mani, a sentire odori forti, a vivere cose che non sono state disegnate da un algoritmo.
Festa a Vico è proprio questo: un’ode alla verità, dove non c’è bisogno di filtri perché tanto è tutto già pieno di umanità. E magari, partendo da qui, il futuro della gastronomia può tornare a parlare dialetto. Quello della gente che cucina per amore, non per copertina.

Forse bisogna ripartire da qui: dal gesto semplice e profondo del cucinare per l’altro. Dall’umiltà di condividere, dal coraggio di sporcarsi le mani. Perché la cucina, quella vera, non mente mai. E se ci sembra romantico dirlo, forse è solo perché abbiamo bisogno di una nuova verità collettiva. E chissà, magari la rivoluzione inizierà da un piatto di genovese servito in mezzo alla strada, tra i vicoli di Vico, sotto le luci gialle e i sorrisi di chi non ha mai smesso di credere che la veracità sia il più nobile degli atti politici.

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