L’eco dell’eleganza: la Grande Dame 2018
L’esperienza tra il sogno di Madame Clicquot, Garden Gastronomy e la cucina sostenibile di Daniele Sera.
Tasted by Adua Villa

Ci sono vini che parlano forte. Che ti travolgono al primo sorso, che chiedono spazio, che vogliono essere protagonisti. E poi ci sono quelli che sussurrano, ma lo fanno con una voce talmente chiara e autorevole che tutto intorno si ferma. La Grande Dame 2018 è così. Non urla, non si impone. Ma ti cattura. E quando ti accorgi che hai smesso di pensare a qualsiasi altra cosa, capisci che sta succedendo qualcosa di raro.
È successo anche a me. Una giornata in Toscana, tra le mura e i cipressi del Castello di Casole, ospite del progetto Garden Gastronomy per La Grande Dame 2018. Un’esperienza pensata come un dialogo tra il vino e il paesaggio, tra il giardino e la tavola, tra il gesto e l’attesa. Una mise en scène intima, essenziale, in questa cornice orchestrata dallo chef Daniele Sera, uno che le verdure non le accompagna, le mette al centro. E con La Grande Dame, ha costruito un percorso che sembra un haiku liquido: pochi ingredienti, equilibrio assoluto, emozione trattenuta. Ma fortissima.
Il progetto Garden Gastronomy, lanciato da Veuve Clicquot nel 2022 e oggi declinato in 27 paesi, nasce con un intento preciso: riconnettere il vino al mondo vegetale, all’armonia della natura, alla sostenibilità profonda. Non è solo un’idea. È una dichiarazione. Una presa di posizione gentile ma ferma: il futuro del gusto passa da una nuova relazione tra ciò che coltiviamo, ciò che cuciniamo e ciò che versiamo nel calice. E in un tempo che corre, scegliere la lentezza dell’attesa, dell’affinamento, del gesto agricolo è un atto rivoluzionario.


La Grande Dame è il cuore di questo racconto. E non potrebbe essere altrimenti. Perché la cuvée de prestige di Veuve Clicquot è da sempre un manifesto di visione, di eleganza, di audacia. Non solo un vino, ma un omaggio liquido a Madame Clicquot, la donna che nel 1805 prese in mano la Maison e ne fece una delle più grandi storie del vino mai raccontate. Visionaria, ostinata, femminile senza compiacimento, fu la prima a comprendere che il Pinot Noir – austero, verticale, testardo – potesse diventare lo scheletro di uno champagne immortale.
Lo è ancora oggi. La Grande Dame 2018 è composta per il 90% da Pinot Noir, e non è una forzatura tecnica. È un atto di coerenza. Ogni parcella è stata scelta con precisione quasi zen: Aÿ, Verzenay, Bouzy, Ambonnay, Verzy. Cru storici, forti di terroir che da soli basterebbero a fare uno champagne. E invece qui si mettono insieme, non per amalgamarsi, ma per esaltarsi a vicenda. Il restante 10% di Chardonnay (Avize, Mesnil-sur-Oger) serve solo a sollevare tutto. A dare luce.
Didier Mariotti, chef de caves, lo ha detto chiaramente: “Nel 2018 abbiamo cercato la freschezza, nonostante un’annata inizialmente calda. Abbiamo vendemmiato presto, abbiamo ascoltato le uve, non le abbiamo forzate.” Il risultato è un vino di tensione, purezza, energia sottile. Un vino che non seduce per opulenza, ma per ritmo.
Ad accompagnarci in questo viaggio è stata anche Gaëlle Goossens, enologa e responsabile delle vinificazioni per Veuve Clicquot, che con garbo e precisione ha raccontato come questo vino non sia il frutto di una formula, ma di un dialogo continuo con la vigna. Ha parlato di equilibri, di decisioni prese in vigna e non in laboratorio, di un’idea di champagne che deve essere profonda ma leggibile, complessa ma essenziale.
Tutto questo si è tradotto in un menu costruito con la stessa grammatica. Lo chef Daniele Sera ha portato in tavola piatti che non cercavano di stupire, ma di risuonare col vino. L’entrée con la crocchetta di cavolfiore e cipolla di Certaldo ha aperto con dolcezza le papille. Il tortello di topinambur con brodo affumicato e tartufo era un passo sospeso, in perfetto contrappunto con la cremosità e la sapidità del Pinot. Il secondo – sedano rapa, mela, finocchio, anice, limone salato – sembrava nato dallo stesso paesaggio in cui stavamo pranzando: dove i profumi del giardino e del bosco vicino arrivavano prepotenti, come solo la natura sa esprimersi dopo un temporale.
E poi la chiusura: una tarte tatin di cipolla rossa. Lì dentro c’era tutta la coerenza dell’esperienza. Un piatto umile e nobile, dolce e amaro, che racconta la terra senza travestimenti. E La Grande Dame 2018, nel bicchiere, sembrava quasi ringraziare per fare coppia insieme.






Il bello è che questo progetto non si ferma affatto a questa esperienza. Garden Gastronomy è un ecosistema narrativo: ci sono orti coltivati appositamente nei pressi della Maison, partnership con chef in tutto il mondo, studi sull’agroecologia applicata alla viticoltura, investimenti nella rigenerazione dei suoli e nella biodiversità. E soprattutto c’è una scelta culturale forte: raccontare la sostenibilità come parte integrante della bellezza. Del vino, del cibo, del paesaggio.
Perché La Grande Dame non è solo una bottiglia da celebrazione ma è un pensiero liquido, che ogni annata si rinnova, cercando di rispondere a una domanda semplice e complicatissima: cosa vuol dire eleganza, oggi? La risposta, forse, sta in questo gesto. In questo progetto. In una cuvée che non cerca conferme, ma si muove con passo sicuro. In una Maison che non ha bisogno di gridare per farsi ascoltare. In un vino che, come Madame Clicquot, vede oltre.

