Franciacorta, 35 anni e non sentirli
Due giorni nel territorio dove il tempo lavora con il vino.
Tasted by Adua Villa
Quando arrivi in Franciacorta, capisci subito che sei in un luogo dove il vino è diventato linguaggio, abitudine, sistema di pensiero. Non c’è niente di spettacolare, niente che urli: è tutto armonico, misurato, coerente. Anche le scelte – e ne ho viste tante, ascoltate con attenzione in due giorni di incontri, degustazioni, conversazioni lunghe – sembrano fatte per durare, non per stupire.
Eppure, la Franciacorta di oggi non sarebbe quella che conosciamo senza una lunga serie di decisioni che, nel momento in cui sono state prese, sembravano tutt’altro che logiche. Anzi, in alcuni casi, veri e propri azzardi.
Il primo risale esattamente a trentacinque anni fa. Nel 1990 nasceva il Consorzio Franciacorta, in un’epoca in cui il termine “bollicine italiane” faceva ancora pensare alla GDO più che a un flute al ristorante stellato. A quell’epoca, vietare ai produttori di usare la dicitura “Metodo Champenoise” suonava come un suicidio commerciale. E invece fu la prima di una lunga serie di scelte coraggiose.
Da quel giorno a oggi, il nome Franciacorta ha smesso di essere un’imitazione per diventare una marca in sé, un’identità distinta, con un valore aggiunto che non ha bisogno di riferimenti esterni.
Io questa storia l’ho toccata con mano. In due giorni di full immersion tra cantine, sede del Consorzio, presentazioni riservate e assaggi comparativi, ho ascoltato la voce di chi la Franciacorta la vive ogni giorno. E il racconto che ne esce non è quello di un successo facile, ma di un progetto lungo, testardo, che ha sempre avuto nel proprio DNA una sola direzione: l’origine.
Quel nome, Franciacorta, è oggi una delle poche denominazioni italiane che coincidono con il prodotto. Come Champagne, come Barolo. Non un tipo di vino, ma un luogo che si fa metodo, stile, percezione. E questo, che oggi ci sembra naturale, è il frutto di una strategia precisa, iniziata quando ancora nessuno parlava di branding territoriale.
In Italia, oggi, quando si pensa a uno spumante premium, la prima parola che viene in mente è Franciacorta. Non è una supposizione. È il risultato di una ricerca commissionata dal Consorzio al Beyond Research Group, che ha misurato notorietà, reputazione e desiderabilità del brand tra i consumatori di alto profilo.
E le risposte raccontano qualcosa di molto interessante: il valore percepito non nasce solo dalla qualità organolettica, ma da uno stile di vita. Chi sceglie Franciacorta lo fa per l’eleganza, la raffinatezza, ma anche per un’idea di autenticità che è rara nel mondo del vino d’oggi. Non è moda. È una fedeltà che si rinnova, bottiglia dopo bottiglia.
Ma tutto questo sarebbe un bel racconto se non ci fossero anche scelte strutturali, progettuali, concrete. Come quella di investire in biodiversità quando ancora il tema non era in cima alle agende. Il progetto “Spazio per la Biodiversità” non è un’iniziativa da brochure patinata. È un sistema operativo. Si misura. Si certifica. Si studia.
Durante la mia visita ho potuto parlare con chi se ne occupa direttamente, e la sensazione è quella di una comunità che ha scelto di non trattare la sostenibilità come una parola di tendenza, ma come una filosofia di lungo periodo. Il nuovo protocollo viticolo 2024, ad esempio, punta a ridurre la burocrazia per le aziende, ma al tempo stesso chiede misurabilità degli impatti: meno chiacchiere, più dati. E tra una visita in vigna e una passeggiata lungo i filari in fiore, scopri che qui si fanno cose concrete: miglioramento dei suoli, inserimento di siepi per favorire gli impollinatori, controllo biologico degli insetti nocivi, rotazioni intelligenti delle colture. Altro che greenwashing.
C’è anche un elemento che mi ha colpito: la Franciacorta è riuscita a tenere insieme altissimo posizionamento e coesione territoriale. Cosa rara, rarissima. L’impressione è che qui le aziende abbiano capito che il successo del singolo passa attraverso il successo del sistema. Non c’è la gara a chi urla di più. C’è un modo condiviso di parlare il vino, di raccontarlo, di difenderlo. Quando si raccontano non sono mai autoreferenziali, mai ipertecnici. Qui si parla di Franciacorta con il linguaggio della cultura, dell’arte, della musica, del gusto.

Il pubblico risponde, anche all’estero. L’export è in crescita, e si concentra su mercati intelligenti, selettivi: Svizzera, Giappone, Stati Uniti, Regno Unito. Mercati in cui il valore conta più della quantità, e dove il vino italiano può – e deve – giocare una partita di posizionamento alto. Non è un caso che in quei mercati il Franciacorta sia diventato sinonimo di autenticità e qualità.
Anche il modo in cui il territorio si presenta è cambiato. Il wine tourism, in Franciacorta, non è un’aggiunta. È parte integrante dell’esperienza. Le cantine sono spazi accoglienti, curati, mai costruiti a tavolino.
Il Consorzio oggi conta 120 cantine, 200 soci, con una superficie vitata a Franciacorta DOCG di 3.393 ettari, con una prevalenza di Chardonnay (79%), seguita da Pinot Nero (18,1%), Pintot Bianco (2,6%) e Erbamat (0,3%).
L’obiettivo per il futuro – dichiarato in occasione del trentacinquesimo anniversario – non è fare di più, ma fare meglio. Aumentare la qualità, ridurre l’impatto, crescere nel valore. Non rincorrere il mercato, ma educarlo. Non andare dietro alle classifiche, ma creare un racconto coerente, inclusivo, profondo.
In Franciacorta, il tempo è un alleato, non un nemico. Serve per far fermentare, per affinare, per aspettare. Ma serve anche per capire, per scegliere, per resistere alla tentazione dell’immediato.
Trentacinque anni non sono pochi. Ma qui sembrano solo l’inizio di qualcosa che sta ancora crescendo. Perché, in fondo, la Franciacorta non è una moda, non è un trend. È una dichiarazione d’intenti. E anche per chi, come me, pensa di aver visto tanti territori, sentito tanti racconti, questa terra riesce ancora a sorprendere.
