Pucciarella & Trequanda, il nuovo corso tra lago e collina
Dalla ribalta meneghina al respiro del Trasimeno e della Val d’Asso: due tenute sorelle che parlano la stessa lingua—freschezza, filiera, ospitalità—con accenti diversi.
Tasted by Adua Villa

Due aziende, una visione. Da un lato Pucciarella, Umbria lacustre e vocazione bollicina in una cava interrata che profuma di lieviti; dall’altro Trequanda, Toscana di pietra e pascoli, dove il Sangiovese dialoga con l’olio EVO e la Chianina. In mezzo, un filo teso che ha il sapore di una strategia: posizionare l’eccellenza italiana come esperienza concreta, misurabile, accogliente. Non è un rebranding da salotto: è un nuovo corso.

Ho avuto modo di incontrare le due cantine a Milano, durante un pranzo degustazione. Il tono lo dà subito Mauro Selva, direttore generale del Fondo Pensioni per il Personale Cariplo, che firma la regia proprietaria del progetto: «Il piano di crescita continua e sostanziale del disegno imprenditoriale ad opera del Fondo Pensioni per il Personale Cariplo consolida l’investimento fondiario in due territori dall’elevata potenzialità agricola e ricettiva, che chiedono e meritano di essere esplorati e valorizzati. In particolare, il valore del patrimonio delle due aziende si attesta sui 12 milioni di euro per Pucciarella e sui 18 milioni per Trequanda.»
È un virgolettato che sposta il baricentro: non solo vini buoni, ma terre intere da orchestrare, sia in campagna sia nell’ospitalità. E penso ad una cosa che ripeto spesso: la qualità, da sola, non basta. Serve coerenza. Qui c’è.
Pucciarella presenta l’anima luminosa del Trasimeno, Trequanda quella sapida delle colline mioceniche. Due profili diversi, stessa grammatica: suoli leggibili, freschezza come principio, estrazioni gentili, precisione in cantina. Soprattutto, la volontà dichiarata di parlare a Ho.Re.Ca. e appassionati con una linea chiara: vini che sappiano restare in memoria per pulizia e riconoscibilità territoriale.

Giuseppe Carrus, Curatore guida vini d’Italia del Gambero Rosso, ci introduce alla degustazione così: «Fa piacere quando un fondo pensioni, come Cariplo, decide di ridare valore alle proprie aziende con un progetto chiaro: vini che siano vere espressioni dei territori dell’Italia centrale. Con una realtà come Pucciarella e i suoi rossi del Trasimeno a base di Gamay (Grenache), e Trequanda che si presenta con vini contemporanei e tecnicamente impeccabili. Il Sangiovese della Doc Orcia ha un grande potenziale di valorizzazione, così come il Sauvignon 2024, che ha dimostrato un’ottima acclimatazione, interpretata al meglio dagli enologi del team.»

Il viaggio è stato interessante e con un paio di sorprese che vi riporto nelle mie note di degustazione: inizio dal lago, senza fretta. Pucciarella è adagiata tra Magione e Corciano, con il Castello (1717) che mette in scena la vigna come un teatro all’aperto. Ottantacinque ettari di filari su galestro argilloso-calcareo e sedimenti marini; altimetrie dolci, esposizioni a sud, venti che rinfrescano. La parola-chiave qui è duale: Metodo Classico + Trasimeno Gamay.
Il primo racconta la profondità di un’Umbria che in cava—con lunghi affinamenti—trova un’intonazione elegante, affilata, mai fredda. Il secondo è la faccia rossa del lago: quell’uva di Grenache che qui chiamano da sempre Gamay e che, se lavorata con temperatura e delicatezza, vibra di fragola, lampone, garofano. È il vino-voce del territorio: succoso, radioso, salino di rientro.
Il Cà de Sass (Metodo Classico) apre il corteo con 24 mesi di pazienza sui lieviti. Ha bevuta energica, che racchiude una bella solarità di clima da Centro Italia. Pienezza di beva dai toni mediterranei, che contrastano le parti più dure del vino, con una sapidità davvero spiccata. Lo descriverei con tre aggettivi: fragrante, vitale, energico.
Nel calice successivo, Cà degli Angeli Rosé (Pinot Nero 18 mesi). Non cede in stucchevolezza, sapidità fondamentale e bella freschezza, con una con una bollicina, elegante e ben integrata. Rosa canina che cattura, ribes e una tensione che invita al secondo sorso, non al selfie.
Sorprende fra i rossi: Plèstina (Trasimeno Gamay) è Il vino contemporaneo. Fermentazione a bassa temperatura, délestage chirurgico, imbottigliamento primaverile per catturare la fragranza. Croccante e ampio senza essere invadente, con un tannino che da un bel ritmo.Anche se è un vino di 13.5 gradi, è un vino che riesce ad avere un grade equilibrio e si fa ricordare se servito alla giusta temperature di servizio. Per viverci bene il balance della percezione alcolica.
Egille (Trasimeno Rosso Riserva: Sangiovese, Cabernet, Merlot) prende invece la strada del tempo lungo: 18 mesi tra legno, cemento e bottiglia; bosco, prugna, spezia dolce, tannino calibrato e in perfetta armonia. Con un bel pizzico di freschezza e bacca di cannella.
Chiude la batteria un Vin Santo che profuma di vinsantaia antica: Trebbiano, Malvasia, Grechetto, fermentazione con madre storica, 24 mesi in legno; miele, fichi secchi, scorza candita.
Il dessert che non ti aspetti in questa azienda è l’ospitalità: 11 appartamenti nel Castello, piscina con jacuzzi, Cappella di Sant’Anna, sale eventi fino a 250 persone. L’Umbria qui non è un passaggio: è una sosta.
Cambio marcia e risalgo verso la Toscana. Trequanda sta tra Val di Chiana e Val d’Asso, una tenuta di 1.200 ettari dove il paesaggio è parte della produzione. Sessanta ettari vitati—350–450 m s.l.m., ventilazione, notti fresche, suoli di limo e arenarie che regalano quella salinità discreta che i vini portano in dote. La grammatica qui ha come soggetto il Sangiovese e come complementi una serie di bianchi tesi, olio extravergine di filiera e soprattutto l’allevamento Chianina (circa 290 capi, ciclo chiuso, semi-brado): un patrimonio genetico che non è un contorno, è identità.
Il primo calice è il Sauvignon (IGT) gioca con le escursioni termiche e i suoli marini: sambuco, uva spina, un esotico misurato e tanta freschezza sapida. Apprezzo molto questo Sauvignon tutto in sottrazione, meno concentrazione, meno opulenza più freschezza, pur rimanendo identitario e parlando la lingua del suo territorio di adozione. Dalla beva easy, ed estremamente attuale, calcando la tendenza del mercato.
Poi arrivano i rossi di struttura: Chianti Riserva DOCG, 18 mesi in legno + 6 in bottiglia: ciliegia, tabacco biondo, spezia integrata, tannino setoso, morbidezza a me fa pensare subito a pane e salame, con un po’ di amici, ma di certo non teme piatti più complessi ed elaborati.
L’Orcia Sangiovese Riserva DOC alza l’asticella: dalle migliori parcelle, 24 mesi in botte grande + 6 in bottiglia: viola, grafite, balsamico, trama tannica importante, lunghezza. È il vino che vuoi sulla Chianina alla brace. Qui l’ospitalità non sta solo in cantina: c’è la Residenza Matteotti nel borgo (19 appartamenti in un palazzo del XVI secolo) e l’Agriturismo Montecerroni (altri 10 appartamenti tra giardini e colline).
E mi ritrovo a mettere in fila ciò che ho sentito in calice. Metodo Classico: quando è fatto bene, non stanca—chiama la cucina, alleggerisce la conversazione, non consuma l’attenzione. Trasimeno Gamay: se non lo conosci, è la porta giusta per entrare in un’Umbria meno ovvia. Sangiovese di collina: quando è educato e profondo, riunisce più che dividere. E poi le due Riserve toscane: una culla morbida (Chianti) e una spina dorsale (Orcia). Non c’è un vincitore: c’è un racconto completo con la triangolazione giusta di oggi: terroir → tavola → viaggio.
Questa degustazione mi lascia con un’immagine: il ponte. Dalla terra ai prodotti, dai calici alle camere, dalle etichette alle persone. Un ponte solido e praticabile, fatto di scelte semplici e coerenti: dare alla vigna il tempo che serve, alla cantina la precisione che merita, all’ospite un posto vero a tavola e nel paesaggio.